Vittorio Sgarbi – Roberta Moresco

P1010065.JPGMondo pupazzo. Così mi verrebbe da definire, nel modo più rapido ed efficace, il popolo colorato e a tutto tondo ideato da Roberta Moresco, scultrice ceramista genovese. Non vuoi dire mondo bambino, anche se potrebbe  assomigliargli. Cosa intendiamo con pupazzo?

Domanda meno scontata di quanto non si immagini. È il modo in cui i bambini, o gli adulti che intendono rivolgersi ai bambini, rappresentano le cose animate, a partire dalle persone. l bambini hanno un modo particolare di vedere  il mondo, impropriamente ritenuto ”ingenuo”, quando invece è solo fresco di esperienze, e voglioso di averne quante più possibili.  A differenza degli adulti. i bambini sono indifferenti a cogliere la verità oggettiva di quanto vedono, ritenendola né decisiva ai fini de\la comprensione delle cose, né, soprattutto, univoca, arrivando da subito a percepire ciò che i migliori di noi intuiscono solo in età successiva, a gioventù ampiamente conclusa. Ecco perché tutto, nella mente del bambino, viene sistematicamente deformato sulla base della sensibilità visuale e affettiva che sta nel frattempo maturando, ancora instabile nelle sue diverse oscillazioni, determinando per ciò che da lui viene visto la formazione di nuove identità fantastiche, spesso e volentieri generate dalla spregiudicata creatività rielaborativa del meccanismo  associativo: quella signora obesa diventa perciò una donna-palla,  quel signore che incute timore un uomo-belva, quell’automobile sportiva uno squalo con le ruote, e così via.

È un gioco, naturalmente, il più appassionante che ci sia, immaginare elle il mondo serva solo a soddisfare il  nostro divertimento. Man mano che le esperienze pratiche del mondo si accumulano, soprattutto attraverso la conoscenza e l’appropriazione delle esperienze altrui (la scuola, essenzialmente, svolge questa funzione), il gioco della deformazione del mondo trova sempre meno spazio nella cultura dell’individuo in formazione, sino al conseguimento dell’età adulta, quando la propensione deformativa finisce per essere bandita come se fosse tipica di una condizione mentale inferiore, ormai su parata. Solo a pochi, una volta superata la soglia della presunta saviezza conseguita, viene ancora permesso eli coltivare  il gioco del mancia deformato: a quelli, come già si è alluso, che comunicano con i bambini per professione (scrittori, illustratori, educatori, cartonisti, giocattolai, e via dicendo), e a quei bambini in fondo mai cresciuti elle si chiamano artisti.

Roberta  Moresco è artista che non si esprime in “pupazzesco” per parlare ai bambini, seppure sarebbero in grado di capirla facilmente, specie nelle ope1·e elle più sembrano compiacersi di certo bozzet­tismo infantile, né, come hanno detto altri interpreti della sua arte, per fornire rappre­sentazioni suiflcientemente iedeli del contesto umano, da borgo popolare ligure, a cui l’ar­tista s’ispira.

È chiaro che quei Mario, Giovanna, Renzo, Nunzia, Felicita, per dire di alcuni nomi riferiti a opere della Moresco, appartengono a un mondo interiorizzato, talmente autonomo, nella sua capacità metamorfica, da non avere più l’obbligo di una precisa corrispondenza in quello esteriore. Un mondo che vive a mezza altezza fra terra e cielo, appena più in basso di un altro, di più accentuata inclinazione fantastica, fra il fiabesco e il surreale, in cui l’invenzione lirica assume un’importanza maggiore, come nel ciclo di Peter il Sognatore,  fra i più accattivanti deil’autrice per la varietà delle soluzioni figurative adottate.

Piuttosto, mi pare interessante notare, in questa  simultaneità. di mondi uguali e differenti, elle il “pupazzesco”   della Moresco, non di rado di scorza brut, come in quei nudi femminili che ne!le sproporzioni ricordano un po’ le nanas  di Niki de Saint Phalle, non si concilia necessariamente all’aggraziato, secondo il luogo comune riscontrabile non tanto nelle espressioni  dei bambini, che non si soffermano  troppo su eventuali approssimazioni  di resa, sicuri come sono che il contenuto da loro riconosciuto  valga più della forma che hanno congegnato per trasmetterlo, ma nel linguaggio “bambinese”, quello che gli adulti alla Walt Disney, tanto per intenderci, elaborano nella convinzione di rispecchiare perfettamente le disposizioni figurative dei più piccoli, quando invece si tratta solo di adattamenti di gusti da persone che hanno superato da tempo la fase dell’infanzia. A ben pensarci, mantenere la verginità bambina dello sguardo, riflesso di una purezza d’animo e di una voglia di sorprendersi ancora inesaurita, vuoi dire rinnegare tutto ciò che gli adulti dicono dello sguardo dei bambini, compreso quello che ho appena detto io. È uno sforzo che mi pare di avvertire nella Moresco, e da solo merita tutta la nostra simpatia.

Vittorio Sgarbi